La Corte di Cassazione con l’ordinanza 6352, pubblicata l’8 marzo 2024 ha ribadito un principio già espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza 10012 del 15 aprile 2021 secondo il quale:
“in tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite servizio postale, qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio può essere data dal notificante – in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata (artt. 24 e 111, comma 2, Cost.) dell’art. 8 della l. n. 890 del 1982 – esclusivamente attraverso la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.), non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della suddetta raccomandata informativa”.
Aldilà del principio di diritto ho voluto approfondire il caso.
Dietro una sentenza, ripeto sempre, ci sono delle storie, c’è una vita, c’è sangue e sofferenza.
Quindi ho voluto comprendere esattamente se, alla fine, possa dirsi: Giustizia è fatta.
Il Caso
Una contribuente (una donna, una persona fisica, non una società) riceveva un avviso di intimazione di pagamento, notificatole dall’agenzia della riscossione, conseguente ad un precedente avviso di accertamento relativo a dei tributi (Irpef ed Irap).
Tuttavia la predetta signora riteneva invalida l’intimazione di pagamento, in quanto deduceva di non aver preventivamente ricevuto il podromico avviso di accertamento.
Spieghiamo: il primo atto, ovvero l’avviso di accertamento era stato notificato a mezzo del servizio postale.
Non essendo stato rinvenuto nessuno presso l’indirizzo (per assenza del destinatario), veniva emessa la CAD, che ricordiamo essere la raccomandata con ricevuta di ritorno inviata dall’agente postale in seguito al mancato recapito del plico il cui tentativo di consegna sia risultato vano, che avverte il destinatario (il contribuente) che il plico è stato depositato (presso il Comune o l’ufficio postale) e che avverte il destinatario di ritirarlo.
La Signora contribuente, nel nostro caso, lamentava proprio di non aver mai ricevuto la CAD.
Da tale circostanza faceva discendere a cascata: la nullità della notifica dell’avviso di accertamento e, quindi, l’invalidità della successiva intimazione di pagamento.
La ricorrente, quindi, ricorreva alla Giustizia Tributaria.
Nei primi due gradi di giudizio la Commissione Tributaria Provinciale e la Commissione Tributaria Regionale davano torto alla contribuente (evidentemente sostendo che bastava l’invio della raccomandata per considerarsi perfezionata la notifica).
Eppure le doglianze espresse e le risultanze documentali dimostravano inequivocabilmente che la contribuente non aveva mai ricevuto la CAD e, quindi, non aveva mai avuto contezza dell’avviso di accertamento (né tanto meno la predetta CAD era stata prodotta in giudizio).
La Signora, quindi, ricorre in Cassazione.
La Corte accoglie i motivi di censura delle predette sentenze di merito ed in particolare accoglie ben cinque dei sei motivi di ricorso, enunciano il principio di diritto che abbiamo segnalato all’inizio del presente articolo.
In parciolar modo due sono i motivi accolti che meritano essere qui richiamati:
Con il suo primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.r la contribuente contesta la violazione dell’art. 8 della legge n. 890 del 1932, per avere la CTR erroneamente ritenuto la validità della notificazione postale del prodromico avviso di accertamento sebbene, risultato assente il destinatario, non sia stata assicurata la prova della notificazione della comunicazione di avvenuto deposito (CAD).
Con il suo terzo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la contribuente critica la violazione di legge in cui è incorsa la CTR per aver ritenuto valida la notificazione indiretta del prodrom ico avviso di accertamento a mezzo del servizio postale sebbene, risultato assente il destinatario, non sia stata assicurata la prova della ricezione della comunicazione di avvenuto deposito (CAD).
Ovviamente rimando ad una più completa lettura della sentenza per tutte quelle valutazioni che gli operatori del diritto vorranno fare.
Quindi, in sostanza, se ci fermiamo qui, sembrerebbe che l’indomita signora alla fine, dopo tre gradi di giudizio, abbia vinto.
Come vedremo c’è un però.
La questione delle spese processuali
Il principio di soccombenza dispone che il giudice condanni la parte che ha perso la causa al pagamento delle spese legali, che liquida in sentenza.
Le principali disposizioni che si occupano della condanna alle spese sono gli artt. 91, 92 e 96 c.p.c.
L’art. 91 c.p.c. disciplina il principio generale di soccombenza, secondo cui il giudice condanna la parte che ha perso la causa al pagamento delle spese legali, che liquida in sentenza.
Due precisazioni:
- la condanna alle spese disposta dal giudice non è indicativa delle spese dovute dalla parte al proprio avvocato. Il Giudice non decide il compenso del libero professionista, ma solo quale parte delle spese legali vanno poste a carico della parte soccombente;
- Esistono delle ecezioni alla regola della condanna alle spese legali. Ma ogni discostamento dal principio dovrebbe essere adeguatamente motivato.
Ciò posto nel P.Q.M. (per questi motivi) la Corte di Cassazione nel giudizio che ha riconosciuto valide le ragioni della contribuente, ha così disposto in ordine alle spese:
Compensa le spese processuali dei gradi di merito del giudizio tra le parti e condanna le controricorrenti al pagamento delle spese di lite in favore della ricorrente, che liquida in complessivi Euro 2.300,00 per compensi, oltre 15% per spese generali, Euro 200,00 er esborsi ed accessori come per legge, some da distrarsi in favore del procuratore dichiaratosi antistatario.
In sostanza, per chi non fosse addentro la materia legale:
per i due primi gradi di giudizio la contribuente sosterrà interamente la parcella dovuta al proprio legale, ivi incluse le spese relative al contributo unificato etc.;
per il giudizio in Cassazione, le spese poste a carico dell’Amministrazione (non l’intera parcella del legale) sono state quantificate come sopra.
La motivazione della compensazione delle spese dei due primi gradi di giudizio è la seguente:
Tenuto conto delle oscillazioni giurisprudenziali verificatesi in un passato anche recente nella materia oggetto di causa, appare
equo dichiarare compensate tra le parti le spese di lite dei gradi di merito del giudizio. Le spese processuali del giudizio di legittimità seguono invece l’ordinario criterio della soccombenza, e sono liquidate in dispositivo in considerazione della natura delle questioni affrontate e del valore della causa.
Alcune considerazioni
La contribuente, come detto, pur avendo vinto il giudizio in Cassazione, dovrà sopportare le spese dei due gradi di giudizio che riteniamo non siano inferiori rispetto a quelle liquidate nel giudizio di Cassazione.
In più non abbiamo idea a quanto realmente ammonti il compenso del legale della ricorrente per il giudizio di Cassazione (di cui solo la somma di circa 3.000,00 è stata posta a carico dei resistenti).
Non conosciamo il valore del giudizio, ma certamente possiamo fare alcune considerazioni.
Ci sembra che la motivazione della Corte sulla compensazione delle spese sia un po’ troppo stringata. Per altro la pronunzia è fondata su un autorevole precedente delle Sezioni Unite sentenza 10012 del 15 aprile 2021. Riferirsi genericamente alle oscillazioni giurisprudenziali appare un po’ riduttivo.
Sebbene la Giustizia venga rappresentata come una dea bendata, appare utile rammentare che la parte vincitrice è una persona fisica (una donna), non una società ovvero una persona giuridica.
Tanto vale a considerare le particolari ed effettive condizioni della ricorrente e delle relative spese sopportate dalla predetta.
Non sappiamo quale sia il valore del giudizio, ovvero il valore dell’imposta richiesta, ma volendo fare un calcolo alla cieca, immaginiamo che la cifra di 6.000,00 euro circa di spese legali per entrambi i gradi di giudizio (compensati dalla Corte), siano state sopportate dalla contribuente (ripetiamo un calcolo approssimativo tenuto conto di quanto liquidato in Cassazione, e non conosciamo la reale parcella per il predetto giudizio).
Sorge spontanea la domanda: ma ne valeva la pena?
Credo che chiunque abbia capito dove voglio arrivare: se l’imposta è inferiore alle spese di giustizia, anche se si ha ragione, conviene pagare l’imposta.
Ci chiediamo: per quale motivo il contribuente vittorioso deve comunque sopportare questo aggravio economico, ricordiamo fatto anche di tasse di giustizia (contributo unificato e diritti), vanificando in sostanza le ragioni del ricorso alla giustizia?
Mi chiedo (è una domanda sincera) se di fatto eista un trattamento di favore nei confronti dell’amministrazione finanziaria, quando ritengo che gli errori commessi da quest’ultima debbano essere decisamente stigmatizzati anziché sottostimati.
In defintiva: è stata fatta giustizia?
