La sentenza della Corte Costituzionale n. 340 del 2007 (qui per il testo integrale) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia), nella parte in cui stabilisce: «in quest’ultimo caso i fatti affermati dall’attore, anche quando il convenuto abbia tardivamente notificato la comparsa di costituzione, si intendono non contestati e il tribunale decide sulla domanda in base alla concludenza di questa».
E’ stato chiarito, in sostanza, che il meccanismo della ficta confessio, così come non è applicabile al rito ordinario, non può essere applicato al processo contumaciale nel rito societario.
Sommario:
Premessa
A. I fatti
B. La questione di costituzionalità
C. Considerazioni
Premessa
Nell’articolo veranno esaminati brevemente i fatti di causa, la questione sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale ivi comprese le argomentazioni che hanno portato la Consulta alla dichiarazione di incostituzionalità, ed, infine, verrano esposte le considerazioni critiche dello scrivente.
Considerazioni che, anticipiamo, concordano dal punto di vista formale con il ragionamento della Corte, ma che esprimono dei dubbi e delle perplessità di natura sostanziale.
Ad avviso dello scrivente, infatti, si sta cercando di smontare quel che di positivo ha il rito societario, sorvoloando, invece, sugli aspetti più problematici del procedimento stesso (ad esempio la presenza di più parti).
Avere come valore e come principio primario da perseguire quello della celerità di un procedimento, significa inevitabilmente scendere a dei compromessi con quelle che possono apparire come garanzie processuali, ma che spesso in effetti altro non sono che scappatoie e vie di fuga.
Un modo serio per ridurre le lungaggini processuali è quello di responsabilizzare le parti.
Responsabilizzazione che può essere perseguita anche attraverso l’imposizione di termini perentori, sanzionando, anche in maniera decisa, il comportamento inerte di una parte processuale.
A. I fatti.
La questione posta all’attenzione della Corte nasce dal giudizio di merito, avente ad oggetto la nullità di un contratto di acquisto di titoli mobiliari e per il rimborso delle perdite subite, innanzi al Tribunale di Catania nel quale:
- Gli attori avevano notificato alla banca convenuta l’atto di citazione in data 1° aprile 2005;
- La banca notificava la propria comparsa di risposta in data 1° giugno 2005 (ovvero oltre il limite dei 60);
- Gli attori notificavano l’istanza di fissazione di udienza in data 16 giugno 2005 (entro i 20 giorni dal ricevimento dell’atto di controparte), nel quale eccepivano la tardività della notifica della comparsa e, quindi, chiedevano, (in ossequio al disposto di cui all’art. 13, comma 2, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, *¹), che il Tribunale considerasse non contestati i fatti così come narrati nell’atto di citazione.
B. La questione di costituzionalità.
Il Tribunale di Catania rilevava che la disposizione in esame ricollegava alla contumacia del convenuto, (cui viene equiparata la tardiva costituzione), l’effetto di una ficta confessio innovando in tal modo il ruolo che la contumacia ha sempre avuto all’interno del processo civile, nel quale appunto, non può assumere alcun significato probatorio.
Le questione di costituzionalità è stata posta con riferimento:
- all’art. 76 Cost.: ovvero in quanto nell’art. 12, comma 2, lettera a), della legge n. 366 del 2001 (la legge “Delega al Governo per la riforma del diritto societario”*²) non prevedeva alcun riferimento alla riforma del rito contumaciale;
- all’art. 3 Cost.: ovvero poiché attribuisce all’attore un privilegio processuale non riscontrabile in nessuno degli altri riti regolati dal nostro sistema processuale e, quindi, contrario al canone della ragionevolezza;
- all’art. 24 Cost.: ovvero poiché l’articolo censurato costituirebbe una sanzione processuale sproporzionata del comportamento del convenuto.
Nel giudizio di legittimità costituzionale l’Avvocatura dello Stato osservava che si doveva escludere la violazione dell’art. 76 della Costituzione poiché rientra “nella fisiologia della delega legislativa il fatto che la legge si limiti a contenere i principi ed i criteri direttivi senza regolare integralmente tutti gli aspetti della fattispecie, sussistendo nel Governo delegato il potere di “riempimento” che la giurisprudenza costituzionale ha in più occasioni riconosciuto”. In sostanza l’Avvocatura dello Stato metteva in luce il fatto che in sé la delega legislativa non può eliminare ogni margine di scelta al momento della sua attuazione. Accade di frequente, infatti, che il legislatore delegante faccia espresso riferimento a concetti come “clausole generali”, “ridefinizione”, “riordino” e “razionalizzazione” (sentenza n. 125 del 2003), indicando in tal modo criteri generici ma tuttavia sufficienti a delimitare il compito del legislatore delegato. Secondo la tesi offerta dall’Avvocatura l’art. 12, comma 2, della legge n. 366 del 2001 contiene criteri idonei e determinati: in esso si fa riferimento all’esigenza di una più rapida definizione dei procedimenti nelle materie ivi indicate, sicché non può lamentarsi una violazione dell’art. 76 Cost.
La Corte Costituzionale considera fondata la questione di costituzionalità con riferimento all’art. 76 Cost., ritenendo, pertanto, assorbito l’esame degli altri profili di illegittimità costituzionale, prospettati dal Tribunale di merito come subordinati.
Preliminarmente la Corte affronta la questione relativa al giudizio di conformità della norma alla legge delega.
Tale giudizio deve essere condotto alla stregua di due processi interpretativi di natura ermeneutica:
- il giudizio relativo alla norme che determinano l’oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e individuando le ragioni e le finalità poste a fondamento della legge di delegazione;
- il giudizio relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi e criteri direttivi della delega».
Siffatta premessa interpretativa, risulta essere la base su cui poggia il giudizio della Corte sulla questione di costituzionalità con riferimento all’art. 13. comma 2. – decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5.
Viene affermato, infatti, che, per quanto possa essere ampio lo spazio dei principi e dei criteri direttivi cui il Governo deve adeguarsi nell’esercizio della delega, «il libero apprezzamento del legislatore delegato non può mai assurgere a principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega» (citando le sentenza Corte Cost. n. 68 del 1991, e sul carattere derogatorio della legislazione su delega rispetto alla regola costituzionale di cui all’art. 70 Cost.: la sentenza Corte Cost. n. 171 del 2007).
In tal senso la Corte, poste tali basi logico-interpretative, effettua i seguenti passi logici:
- riprende l’art. 12 legge n. 366 del 2001 (legge delegante) esaminandolo nella sua interpretazione letterale ed ermeneutica (anche attraverso l’analisi dei lavori parlamentari: “nessuna volontà di riforma dell’istituto della contumacia trapela dai lavori parlamentari, poiché la relazione di accompagnamento al disegno di legge delega per la riforma del diritto societario (presentato il 3 luglio 2001) non contiene alcun riferimento alla materia in oggetto; al contrario, un preciso richiamo alla contumacia è presente nel punto 23 del disegno di legge delega per la complessiva riforma del processo civile approvato dal Consiglio dei ministri in data 24 ottobre 2003“.
- Osserva , quindi, che: “la legge di delegazione era finalizzata all’emanazione di norme che, senza modifiche della competenza per territorio o per materia, fossero dirette ad assicurare una più rapida ed efficace definizione di procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria nonché in materia bancaria e creditizia“.
- Conclude che: “La censurata disposizione del decreto delegato, mentre è evidentemente estranea alla riduzione dei termini processuali, neppure può essere ritenuta conforme alla direttiva della concentrazione del procedimento. (…)Tutto ciò anche a voler trascurare il rilievo secondo il quale non sempre l’introduzione della ficta confessio contribuisce alla rapida ed efficace definizione dei procedimenti“.
C. Considerazioni.
La Sentenza citata in epigrafe, come già evidenziato, dichiara incostituzionale, per “eccesso di delega”, l’art. 13, comma 2, del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, nella parte in cui stabilisce che, in caso di mancata o tardiva notifica della comparsa di costituzione da parte del convenuto, i fatti affermati dall’attore s’intendono non contestati e il tribunale decide sulla domanda in base alla concludenza di questa.
In sostanza viene stabilito che il meccanismo della ficta confessio, (una applicazione è rinvenibile nell’articolo 232 del codice di procedura civile: Se la parte non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il collegio, valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio), non può essere applicato al rito societario, così come non lo è nel procedimento ordinario, in caso di contumacia del convenuto.
E’ bene evidenziare subito che la Corte non entra nel merito delle scelte legislative, ovvero nella sostanza della norma per contrarietà ai dettami costituzionali, ma effettua la sua analisi esclusivamente con riferimento all’art. 76 Cost., ovvero in relazione al rapporto intercorrente tra legge delega e legge delegata.
Tale rapporto è sottoposto a quattro limiti:
- la delega può essere conferita solo con legge e soltanto al Governo nel suo complesso;
- la legge di delega deve definire gli oggetti su cui il governo potrà esercitare la delega;
- la delega deve essere esercitata in un termine preffisato dalla legge di delegazione;
- la delega deve fissare i principi e i criteri direttivi cui il Governo deve adeguarsi nell’esercizio della delega.
Pertanto stante l’oggetto della delega (il punto n. 2) e avendo riguardo ai principi e i criteri direttivi (punto n. 4), la Corte Costituzionale ha ritenuto che la legge delegata travalicava i limiti della delega.
In tal senso il Tribunale di Catania, nel rimettere la questione innanzi alla Corte Costituzionale, osservava che:
“la riforma del rito contumaciale operata dalla norma in esame non risponde, se non per «mero accidente processuale», alla finalità di riduzione dei termini processuali, il che risulterebbe ancora più evidente in un processo con più convenuti dei quali almeno uno si sia costituito tempestivamente“.
Ulteriori perplessità espresse dal Tribunale di merito erano inerenti alla violazione dell’art. 3 Cost. (in quanto contrario al canone della ragionevolezza, poiché attribuisce all’attore un privilegio processuale non riscontrabile in nessuno degli altri riti regolati dal nostro sistema processuale; e tale disparità non potrebbe trovare giustificazione neppure nella peculiarità delle controversie destinate ad essere trattate col cosiddetto rito societario, poiché l’art. 70-ter delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile consente, nell’accordo delle parti, che tale rito si applichi anche ai processi ordinari);
e 24 Cost. (in quanto la «secca previsione normativa della non contestabilità dei fatti affermati dall’attore in caso di tardiva notificazione della comparsa di risposta» costituirebbe una sanzione processuale sproporzionata del comportamento del convenuto che, come nel caso di specie, ha notificato la propria comparsa di risposta con un solo giorno di ritardo rispetto al termine fissato per legge).
E’ da evidenziarsi, inoltre, che nel rito societario non è previsto l’obbligo (si veda l’art. 2, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 5 del 2003) che l’atto introduttivo contenga l’avvertimento al convenuto circa le conseguenze negative che si possono produrre a suo carico in caso di contumacia o tardiva costituzione, con conseguente lesione del diritto di difesa del convenuto.
Con riferimento a questi ultimi due punti, uguali perplessità erano già state espresse da Michele Cataldi nel suo articolo su judicium.it, con riferimento, tuttavia, al processo sommario di cognizione del rito societario di cui all’art. 19:
“Infatti, contro la trasposizione della disciplina introdotta dall’art. 13,co.2 al rito sommario,depongono sia la mancanza di una previsione normativa espressa in tal senso ;sia l’inammissibilità dell’analogia che estenda la portata di una norma straordinaria rispetto alla disciplina generale della contumacia nel nostro sistema processuale; sia la non piena equivalenza tra la “non contestazione” (art. 13,co.2) e la “sussistenza” (art. 19) dei fatti costitutivi affermati dall’attore/ricorrente ; sia infine,proprio per quanto sinora argomentato,la consapevolezza che la “sanzione” attribuita dall’art. 13,co. 2 alla contumacia del convenuto ha come presupposto un meccanismo di introduzione del contraddittorio che non è identico a quello del giudizio sommario, nel quale sono invece più compressi i tempi per la difesa del debitore resistente, pur potendo il procedimento concludersi con un provvedimento di condanna immediatamente esecutivo e capace di incidere, sul patrimonio del debitore condannato, in maniera sostanzialmente analoga a quella di una sentenza ordinaria di condanna di primo grado (sia pur con l’eccezione del giudicato implicito o riflesso, ma con una potenziale stabilità dell’efficacia esecutiva, in caso di mancata proposizione dell’appello o di conclusione del giudizio d’impugnazione con una pronuncia in rito e non in merito)”.
Ad avviso dello scrivente la decisione della Consulta appare, dal punto di vista formale, ineccepibile.
Tuttavia si vuole osservare che la vera ratio ispiratrice della norma in esame e di tutto il processo societario, sia quella di una maggiore responsabilizzazione della parti processuali, volto ad un concreto e maggiore attivismo, e, in definitiva, si è cercato di privatizzare ulteriormente il rito processuale.
In tal senso si muove tutta la disciplina in esame che cerca di istruire la causa nel più breve tempo possibile, anche attraverso dei limiti preclusivi ferrei (in tal senso le prime memorie di replica ex artt. 6 e 7), che responsabilizzano le parti del giudizio.
Già nell’art. 4 si pone un preciso obbligo a carico del convenuto, ovvero quello di “proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’altra parte a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, proporre le domande riconvenzionali dipendenti dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che gia’ appartiene alla causa come mezzo di eccezione, dichiarare di voler chiamare in causa i terzi ai quali ritiene comune la causa o dai quali pretende di essere garantito precisandone le ragioni, formulare le conclusioni“.
Nell’art. 10, comma 2-bis (introdotto dal D.Lgs 310/2004), viene espressamente stabilito che:
“La notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza rende pacifici i fatti allegati dalle parti ed in precedenza non specificamente contestati“.
E’ immaginabile che anche tale articolo sarà sottoposto al vaglio Costituzionale.
Con l’art. 70-ter delle disposizione di attuazione del codice di procedura civile viene stabilito che tale rito possa essere liberamente scelto dalle parti previo accordo, con conseguente possibile applicazione di tali disposizioni nel rito ordinario.
In tal senso la sanzione posta nell’art. 13. comma 2 risulta essere sicuramente forte ed innovativa rispetto al processo civile ordinario ma, considerate le caratteristiche delle parti, il tema oggetto del nuovo rito ed anche il trend operativo che si vuole imprimere alla Giustizia Civile, non credo sia una norma del tutto avulsa dal contesto giuridico che la riforma in esame voleva avere.
Stiamo, infatti, discorrendo di rito societario, stiamo parlando di contumacia di una parte del detto procedimento, parte che non può che essere il convenuto ( a meno che l’attore non si costituisca tempestivamente con conseguente possibile cancellazione della causa dal ruolo, in assenza di interesse della parte convenuta al proseguimento della causa). Convenuto che nella pratica risulta essere una società, ovvero un azionista, quindi una parte qualificata. Tale parte processuale, vista la natura del contendere, viste le proprie caratteristiche di soggetto processuale, si è cercato di renderla, attraverso la previsione in esame, attiva e responsabile, eliminando i meccanismi della contumacia intesa come scelta difensiva.
Ricordiamo, ad esempio, che nel diritto processuale inglese, tramite il judgment on default of appereance (giudizio a seguito di mancata comparizione) è consentito al giudice di decidere sulla domanda in base alla concludenza di questa.
Certo, non vogliamo effettuare il discorso qualunquista secondo cui basta che un istituto sia presente in un ordinamento estero, perché questo possa essere surrettiziamento introdotto nel nostro.
Certo è che l’affermazione della Corte, secondo cui: “non sempre l’introduzione della ficta confessio contribuisce alla rapida ed efficace definizione dei procedimenti“, risulta, a mio personale avviso, un po’ repentina e poco argomentata.
Tale norma censurata, forse, non avrebbe contribuito alla rapida definizione dei procedimenti (cosa da dimostrare), ma sicuramente poteva rappresentare un principio che avrebbe imposto alle parti una vera e precisa responsabilità.
Quello che si cercava di realizizzare (forse in maniera un po’ goffa) era la pienezza del contraddittorio e la certezza dello stesso, sanzionando quella parte che in maniera ingiustificata si fosse sottratta, entro i limiti processuali previsti, alla dialettica processuale.
————————————————-
Note
1
Art. 13. comma 2. – decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 –
Contumacia dell’attore e del convenuto; rilevabilita’ dell’inammissibilita’ di allegazioni, istanze, istruttorie e produzioni documentali.
Se il convenuto non notifica la comparsa di risposta nel termine stabilito a norma dell’articolo 2, comma 1, lettera c), ovvero dell’articolo 3, comma 2, l’attore, tempestivamente costituitosi, puo’ notificare al convenuto una nuova memoria a norma dell’articolo 6, ovvero depositare istanza di fissazione dell’udienza; in quest’ultimo caso i fatti affermati dall’attore, anche quando il convenuto si sia tardivamente costituito, si intendono non contestati e il tribunale decide sulla domanda in base alla concludenza di questa; se lo ritiene opportuno, il giudice deferisce all’attore giuramento suppletorio.
2
Art. 12, comma 1 e comma 2, lettera a), legge n. 366 del 2001
1. Il Governo è inoltre delegato ad emanare norme che, senza modifiche della competenza per territorio e per materia, siano dirette ad assicurare una più rapida ed efficace definizione di procedimenti nelle seguenti materie:
a) diritto societario, comprese le controversie relative al trasferimento delle partecipazioni sociali ed ai patti parasociali;
b) materie disciplinate dal testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, e dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni.
2. Per il perseguimento delle finalità e nelle materie di cui al comma 1, il Governo è delegato a dettare regole processuali, che in particolare possano prevedere:
a) la concentrazione del procedimento e la riduzione dei termini processuali;