La Sentenza della Corte Costituzionale n. 71/2008, (qui per il testo integrale) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria), limitatamente alle parole: «incluse quelle connesse a norma degli articoli 31, 32, 33, 34, 35 e 36 del codice di procedura civile».
Con la pronuncia in esame viene a cadere il regime dell’attrazione del rito societario in tutti i casi di connessione di cause.
Sommario:
- Premessa: il caso sottoposto al vaglio della Consulta;
- La normativa: art. 1, comma 1, d.lgs. 5/2003; art. 40 c.p.c.;
- Cade il regime dell’attrazione del rito societario in tutti i casi di connessione di cause;
- Una breve parentesi.
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Premessa: il caso sottoposto al vaglio della Consulta.
Il caso prende origine da un giudizio avente ad oggetto l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il ricorrente e la società convenuta (rito del lavoro).
In sostanza la questione era attinente all’illegittimità dell’atto di recesso dal rapporto di lavoro da parte di della società.
In tale giudizio era stata contestualmente proposta anche un’azione di responsabilità ai sensi dell’art. 2497 c.c. (avverso altra società).
Il Tribunale di Padova, in funzione di giudice del lavoro, sollevava, quindi, con ordinanza del 7 luglio 2006, la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 76 della Costituzione, dell’art. 1 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), nella parte in cui prevede che, nel caso di connessione tra una causa compresa nell’ambito applicativo della norma richiamata e altra concernente uno dei rapporti di cui all’art. 409 cod. proc. civ., i procedimenti connessi siano sottoposti al rito di cui al decreto legislativo medesimo.
La normativa: art. 1, comma 1, d.lgs. 5/2003; art. 40 c.p.c., artt. 409 e 442 c.p.c.
Art. 1, comma 1, d.lgs. 5/2003 (rito societario):
1. Si osservano le disposizioni del presente decreto legislativo in tutte le controversie, incluse quelle connesse a norma degli articoli 31, 32, 33, 34, 35 e 36 del codice di procedura civile, relative a:
a) rapporti societari, ivi compresi quelli concernenti le societa’ di fatto, l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario, le azioni di responsabilita’ da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i liquidatori e i direttori generali delle societa’, delle mutue assicuratrici e delle societa’ cooperative;
b) trasferimento delle partecipazioni sociali, nonche’ ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti;
c) patti parasociali, anche diversi da quelli disciplinati dall’articolo 2341-bis del codice civile, e accordi di collaborazione di cui all’articolo 2341-bis, ultimo comma, del codice civile;
d) rapporti in materia di intermediazione mobiliare da chiunque gestita, servizi e contratti di investimento, ivi compresi i servizi accessori, fondi di investimento, gestione collettiva del risparmio e gestione accentrata di strumenti finanziari, vendita di prodotti finanziari, ivi compresa la cartolarizzazione dei crediti, offerte pubbliche di acquisto e di scambio, contratti di borsa;
e) materie di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, quando la relativa controversia e’ promossa da una banca nei confronti di altra banca ovvero da o contro associazioni rappresentative di consumatori o camere di commercio;
f) credito per le opere pubbliche.
In buona sostanza con questo articolo il legislatore aveva inteso attribuire al rito societario una posizione di prevalenza, anche in considerazione di un possibile rinnovamento delle generali regole procedurali, in tutte le ipotesi di modificazione della competenza per ragioni di connessione (artt. da 31 a 36 del codice di procedura civile), ovvero:
- art. 31: Cause accessorie;
- art. 32: Cause di garanzia;
- art. 33: Cumulo soggettivo;
- art. 34: Accertamenti incidentali;
- art. 35: Eccezione di compensazione;
- art. 36: Cause riconvenzionali.
Come sopra anticipato, nell’art. 1 del d.lgs. 5/2003 vi era un intento programmatico riformatore dell’intera materia processual civilistica: si tendeva di rifondare le regole codicistiche con un duplice intento:
– cercare di raggruppare in un unico rito l’invasività delle molteplici procedure speciali (tema diventato, ormai di drammatica e lancinante attualità);
– ridurre il numero di udienze e tentare di far arrivare la causa al giudice istruita nei suoi elementi essenziali.
In tal modo, ad avviso dello scrivente si confervia un maggiore certezza sul rito da seguire nei casi dubbi di connessione di cause.
Art. 40 codice di procedura civile – Connessione
Se sono proposte davanti a giudici diversi più cause le quali, per ragione di connessione possono essere decise in un solo processo, il giudice fissa con sentenza alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito.
La connessione non può essere eccepita dalle parti ne’ rilevata d’ufficio dopo la prima udienza, e la rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l’esauriente trattazione e decisione delle cause connesse.
Nei casi previsti negli artt. 31, 32, 34, 35 e 36, le cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l’applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli artt. 409 e 442. (1)
Qualora le cause connesse siano assoggettate a differenti riti speciali debbono essere trattate e decise col rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, col rito previsto per la causa di maggior valore. (1)
Se la causa e’ stata trattata con un rito diverso da quello divenuto applicabile ai sensi del terzo comma, il giudice provvede a norma degli artt. 426, 427 e 439. (1)
Se una causa di competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 con altra causa di competenza [del pretore o] (2) del tribunale, le relative domande possono essere proposte innanzi [al pretore o] (2) al tribunale affinché siano decise nello stesso processo. (3)
Se le cause connesse ai sensi del sesto comma sono proposte davanti al giudice di pace e [al pretore o] (2) al tribunale, il giudice di pace deve pronunziare anche d’ufficio la connessione a favore [del pretore o] (2) del tribunale. (3)(1) Comma aggiunto dall’art. 5, L. 26 novembre 1990, n. 353.
(2) Parole soppresse dal Dlgs. 19 febbraio 1998, n. 51.
(3) Comma aggiunto dall’art. 19, comma 1, L. 21 novembre 1991, n. 374.
Ai commi 3 e 4 (quelli evidenziati in grassetto) viene previsto che le cause cumulativamente proposte o successivamente riunite, nelle ipotesi di cause accessorie, cause di garanzia, accertamenti incidentali, eccezione di compensazione, cause riconvenzionali, queste debbano essere trattate con tutte con il rito ordinario, eccezion fatta per le ipotesi degli artt. 409 e 442 c.p.c., ovvero per le ipotesi che in una delle cause connesse avesse come oggetto le controversie individuali di lavoro o di previdenza. In questi casi il rito applicabile sarebbe dovuto essere quello del lavoro.
In ultimo, se la concorrenza è fra diversi riti speciali si applicherà il rito previsto per quella causa in ragione della quale viene determinata la competenza o per quella causa che ha il maggior valore.
Riepilogando: il rito del lavoro prevale codicisticamente sul rito ordinario.
In ipotesi di connessione di cause con concorrenza di più riti speciali (eccezion fatta per le controversie lavoristiche) prevale, per così dire, il rito della causa principale (per valore o per competenza).
Non possiamo esimerci dall’effettuare una considerazione: il proliferare di riti è, ormai, divenuto l’emblema, non di evoluzione processual-civilistica, bensì di vera e propria follia giuridica.
In uno schema in cui: posta la regola base (il rito ordinario) vi siano poche, pochissime, eccezioni (riti speciali), il quadro legislativo avrebbe un senso.
La verità è che il rapporto di regola ed eccezione è stato capovolto ed anziché ridurre la materia processuale ad unità e semplificazione, si continua ad implementarla con riti speciali che, peraltro, non si attagliano ad alcuna tutela di diritti, non garantiscono alcunché, producono un clima di incertezza, aggravano irrimediabilmente la lunghezza dei processi.
In tal senso, e solo per fare un esempio, proprio in tema di rito del lavoro sarebbe necessario ripensare all’istituto della conciliazione obbligatoria da tenersi presso la Direzione Provinciale del Lavoro (avente ad oggi una mera funzione dilatoria).
Solo nel 2004 (dati del Ministero del Lavoro):
sono state instaurate 495.919 vertenze individuali;
di cui 82.493 hanno raggiunto la conciliazione.
Solo in teoria la percentuale sarebbe del 16% (già di per sé significativamente bassa), poiché tale statistica (del Ministero del Lavoro) non tiene conto di quelle vertenze sottoposte necessariamente alla Direzione Provinciale del Lavoro al fine transattivo (ovvero come mera formalità).
Cade il regime dell’attrazione del rito societario in tutti i casi di connessione di cause
Come nella precedenza sentenza della Corte Costituzionale n. 321/2007, la Consulta ha osservato che il legislatore delegato ha oltrepassato i limiti della delega di cui all’art. 12, comma 2, della legge 3 ottobre 2001, n. 366.
Più in particolare non è sfuggito ai giudici della Consulta che il legislatore delegante aveva limitato la delega alle materie disciplinate dal T.U.F. (T.U. 58/1998) e dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (T.U. 385/1993).
In alcuna maniera la finalità di assicurare una più rapida ed efficace definizione di procedimenti attiene all’oggetto della delega.
Poiché l’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, dispone che il detto rito societario si applica anche nell’ipotesi di connessione di cause ai sensi degli artt. 31, 32 33, 34 35 e 36 c.p.c., ad avviso della Consulta il legislatore delegato ha oltrepassato le finalità della delega, poiché ha inserito una disciplina derogatoria rispetto a quella generale con riferimento al rito da seguire, prevedendo in modo illegittimo la prevalenza del rito societario rispetto a tutti gli altri riti. Non solo, ma inoltre veniva inclusa tra le ipotesi di connessione quella prevista dall’art. 33 c.p.c. che il successivo art. 40 c.p.c., invece, non contempla.
Merita di essere evidenziato il fatto che la statuizione della Corte Costituzionale non si è fermata a dichiarare l’incostituzionalità della norma sottoposta al suo vaglio con riferimento alla connessione con controversia di lavoro, ma, onde non dover ritornare sulla questione ed in tal modo accertato l’eccesso della delega, ha allargato il suo thema decidendum dichiarando l’illegittimità della norma anche con riferimento a tutte le altre controversie connesse.
Tale soluzione è apprezzabile, in considerazione di una generale economia processuale, ma di certo non aderente ai poteri della Consulta che invece avrebbe dovuto fermarsi a far caducare la norma entro i limiti a lei demandati.
Una breve parentesi
Un ultima considerazione merita di essere effettuata alla luce di questa ennesima sentenza (se ne registrano già 3 della Corte Costituzionale).
Lo scrivente ritiene che il rito societario aveva in sé un grande, necessario, apprezzabile e positivo intento riformatore: si era cercato, fra l’altro, di ridurre i termini processuali cercando di far arrivare al Giudice la causa già istruita.
Inutile dire che il pressapochismo con cui è stata formulata la legge è di tutta evidenza.
Fra l’altro rimangono ancora in piedi tutte le perplessità, le incertezze e le difficoltà applicative nelle ipotesi sopravvengano all’interno della procedura ulteriori parti rispetto a quelle iniziali, la cui chiamata in giudizio, ovvero il cui intervento, apre a scenari processuali, per così dire, apocalittici in ordine sia all’esatto computo dei termini, sia con riferimento al controllo istruttoria da parte del giudice.